
Marina Salucci ci regala questo racconto, dai toni piuttosto cupi ma molto attuali, che parla del difficile rapporto tra l’uomo e la natura e soprattutto di come l’uomo stia maltrattando il pianeta, rovinandolo e inquinandolo, devastando tutto ciò che di bello ci ha regalato la natura.
Uscì.
Il sole dello zenit allucinava il paesaggio. Sfaldava i contorni dei monti, accecava gli occhi, creava profili di irrealtà. Si chiese se fosse un sogno. Si rispose di no. Era qualcosa di più sinistro. Le sembrava che il mondo avesse preso la strada delle possibilità più estreme. Quelle che bisognerebbe pensarci, prima di affondarci i piedi. Ma l’uomo non ci aveva pensato, e sembrava intenzionato a percorrerle fino in fondo.
Il pianeta che un giorno brillava di bellezza era diventato un grande deserto. Terra era stata depredata, inaridita, avvelenata. La malattia sfrecciava da un emisfero all’altro cambiando il suo volto, assumendo sembianze diverse, tutte maschere tragiche. Ma la paura era la malattia più pericolosa, quella che poteva mangiarsi ogni soffio vitale. Quella più strumentalizzata.
Camminò verso il mare. Lo trovò che urlava di spuma, di onde alte e livide.
Le arrivò, veloce, un pensiero.
Forse Terra avrebbe annientato la cellula cancerogena che la tormentava: l’UOMO. E dopo un grande silenzio di millenni, il pianeta avrebbe potuto di nuovo vedere sorgere la vita. Quella vera, senza prevaricazioni, senza l’intelligenza sedicente di una specie che si era arrogata il primato sulle altre. L’acqua sarebbe diventata limpida, le erbe floride, e il vento avrebbe portato pollini nuovi.
Era solo un pensiero?
Era un sogno, l’unico sogno possibile.
M.S.