
La seconda parte del racconto di Marina Salucci dal titolo La morte del sole, un testo fantascientifico e apocalittico che ci trasporta in una realtà in cui il sole non illumina più la terra, che cosa succederebbe agli abitanti? Qui potete leggere la prima parte https://limontenews.wordpress.com/2022/11/12/i-racconti-di-marina-salucci-la-morte-del-sole-prima-parte/
Zip la guardò viso a viso, emettendo un verso sommesso d’animale.
Poi, con quanto fiato aveva in gola, lanciando fiamme dagli occhi scuri, disse:- No, Lia, domani non ci sarà il sole. Non ci sarà più.
Allora tutti ci voltammo, all’unisono, verso il punto in cui avevano guardato Lia e Zip, verso la voragine fredda, e rimanemmo lì incollati.
Qualcuno si mise a computare i punti cardinali, altri fecero riprove più complesse, ci fu chi fece segni che potevano essere di preghiera, chi iniziò a sciorinare teorie, ma tutti, tutti, immediatamente capimmo. Era là che il sole avrebbe dovuto essere. E se n’era andato. Non c’era più.
Per poco ancora riuscimmo a vedere il bagliore dello sguardo di Zip, della sua audacia, e gli occhi di tigre di Lia. Loro parevano non accorgersi che dalla voragine arrivava buio e freddo, velocemente fino a noi, alle nostre finestre.
Un evento cosmico, la mancanza agghiacciante della nostra stella, dava loro il coraggio che non avevano trovato nella quotidianità.
Qualcuno andò a prendere degli abiti caldi, altri accesero i termosifoni, e si chiusero in casa. Ma ormai quel freddo ci penetrava dentro, e non ci avrebbe abbandonato.
Ah, come amammo il sole allora, fonte della nostra vita, di tutta la vita che la sua luce faceva crescere e rizzare dalla terra verso il cielo, che strazio ricordarci le giornate di lucente limpidezza, i raggi chiari, la loro carezza, e noi che si trattava tutto come una cosa scontata…
Ricordammo con fonda tristezza quando il salmista intonava:
Nei cieli è fissata la dimora del sole.
Esce come uno sposo dalla camera nuziale,
come un campione si getta felice
nella corsa. (Salmo 19-6)
…quando Omero declamava:
Fuoco inesausto gli accese nell’elmo e nello scudo,
pari all’astro della Canicola, che sopra tutti
riluce splendidamente, quand’esce dal bagno d’Oceano, simile fuoco (gli accese)
(Dall’Iliade)
…quando Francesco cantava:
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. (Dal “Cantico delle Creature”)
Ah, come erano passati in fretta i miliardi di anni della vita concessa al nostro lume, che ci era parso potente come l’eternità.
Scrivemmo odi al sole, lo disegnammo, intonammo canti, e intanto i nostri organi diventavano freddi, come ghiaccio come specchio, il nostro sangue era diamante liquido, che andava a suo piacimento e ci portava pensieri di quarzo, tutto l’idrogeno di cui eravamo fatti si raffreddava, di pari passo con l’idrogeno del sole. Esser fatti d’elio, questo desiderammo, per disperderci allegramente nel cosmo, ed invece il carbonio ci pesava, ci impediva d’esser stella anche noi, era fardello, fardello greve.
Uscimmo tutti, di lì a poco, come se si stesse rispondendo ad un richiamo, e tutti a correre verso gli spazi aperti, prati greti, spiagge, deserti.
Lì ci ritrovammo, con l’ultima flebile luce.
Si capì che ogni creatura, animata o no, stava implodendo verso un punto, che tutto stava concentrandosi insieme, e mormorii lamenti echi accompagnavano tutti verso il luogo d’implosione.
Era un esodo ordinato, tutto incontro a tutto: il mare allungò le sue onde sulla rena, gli alberi vi si stesero, le dune si sparsero e sparirono.
Solo Lia e Zip erano ancora fermi, sui loro balconi. In silenzio, si mossero di nuovo nello stesso istante, e si trovarono sul terrazzo condominiale, quello che era sempre stato fonte di lite fra i condomini, ora pieno di pace, con Lia e Zip che erano saliti lì in alto, a vedere tutta quell’implosione, senza parole, solo mugolandosi versi dolci.
Iniziò un vorticare delle cose, una addosso all’altra ad incastro, ma con ordine, senza fretta. Era come se una calamita fortissima attirasse qualcosa verso qualcos’altro, in base a leggi nuove che noi non conoscevamo. E in quest’unione la materia si contraeva e mutava.
Vidi le rocce abbracciarsi le une alle altre e, diventate fluide, iniziare a girare, come se qualcuno le rimestasse in un pastone. Per implodere e diventare altro, la materia doveva cambiare stato.
Il cielo s’abbassava, l’atmosfera si faceva densa, le acque si contraevano.
In poco tempo tutte le cose della creazione si trovarono lì, nei punti d’implosione, faccia a faccia con se stesse, liberando tutto lo spazio che s’erano prese prima.
Ah, momento drammatico, pronosticato da millenni, che consideravamo fantascienza. Ah, la dolcezza del sole primaverile che fa rompere la scorza delle gemme, la stella che non ha eguali nel cosmo per illuminare la meravigliosa bellezza del mondo, il lume che viaggia senza sosta e crea le cose con la sua luce…
Questo pensai, poi vidi il mio vicino di casa, quello che sempre protestava per i troppi animali nel caseggiato, vorticare insieme ad una cavalla, e ciò che ne venne fuori cozzare contro un palo del telefono. La moglie del signor Zip, che neppure s’era premurata di vedere dove fosse suo marito, fece breccia in un blocco di manganese, dove già s’era conficcato un vasto assortimento di oggetti.
Su di noi pioveva il mondo, un campionario di ciò che era stato.
Era una forza primordiale quella che muoveva la materia, e mescolati nel pastone, tutti insieme a tutti, qualcosa cominciò a mutare in noi. Succedeva che ci avviavamo a non essere più noi, ma cominciavamo a essere qualcos’altro.
Lo capimmo quando le nostre nostalgie si sciolsero e il pensiero… cessò.
Intorno si era formato uno strato gassoso, provocato da quell’esagerazione di trasformazioni, e l’atmosfera gli premeva addosso, addosso, bassa, pesante, così che lo strato di gas cercava un varco per liberarsi e sgusciare.
Vidi l’amministratore schiantarsi sulla grassa signora Claudia, quella che spesso scherniva con i vicini, e ancora l’auto lussuosa che lui lucidava e controllava ogni giorno, accartocciarsi insieme a rocce scistose.
E io andavo avanti, verso un punto, e non m’ero ancora appiccicato a nulla, così come avevo fatto durante la mia vita. Ma ormai non potevo darmene pensiero.
Invece Lia e Zip erano ancora là fermi, immobili, sul terrazzo condominiale, ora non insidiato da alcuno, e preservato da forze rotatorie.
Si erano presi per mano, un gesto semplice e tenero, ma solido e deciso. Le loro mani sembravano delicatamente appiccicate, sembravano materia nuova.
Questo, questo lì esentò dalla sfilata verso il punto, erano stati risucchiati l’uno dall’altra, come noi verso le cose, in modo così perfetto che nulla d’altro avrebbe potuto piovere su di loro o attirarli nel pastone.
Fu allora che lo strato gassoso, che aumentava smisuratamente, riuscì a perforare in un istante la troposfera, con un booatoo fortissimo, un ruuumoree primigenio, e via, via nella stratosfera, ed ancora su, su nella termosfera, il gas esplose, schizzò in alto e una luce impietosa illuminò un mondo sfatto, contratto, pieno di pezzi di cose.
Lia e Zip, mano nella mano, leggeri come uccelli, furono portati su dal potente getto gassoso, oltre il boato, oltre la luce, in giro per il grande cosmo, verso una nuova stella, dove ritrovare ciò che s’era perduto, o forse raggiungere ciò che non s’era mai avuto, o creare lo splendore di un pianeta in germoglio, solo con il volo, con il volo verso di esso.
Mi parve allora, sì, proprio allora, di sentire una nuova musica, senza gravità, canzone piuma, farfalla diafana, vagare incurante del mondo che tornava all’indistinto, alla concentrazione, al nulla, vagare insieme alla voce chiara, lieve, commossa, che cantava le parole del poeta:
E con le mani amore,
per le mani ti prenderò
e senza dire parole,
nel mio cuore ti porterò,
e non avrò paura
se non sarò bella come dici tu,
ma voleremo in cielo
in carne ed ossa,
non torneremo più…
(da “La Donna Cannone” – De Gregori)
Poi
diventai
berillio.