Un nuovo appuntamento con i racconti di Marina Salucci, ecco “Marmaros” nato da un viaggio dell’autrice sulle Alpi Apuane
MARMAROS
Ora la strada è sterrata. Dunque proseguo a piedi. Penso che dovrebbe essere vicino. Mi sono fidata di un cartello che diceva genericamente “Cave”, e di un indigeno, che alla domanda “quanto ci vuole?” ha risposto “poco, stia tranquilla, si fa presto”.
Osservo le mie scarpe che ad ogni curva si fanno più polverose. “Niente è lontano”, il motto dell’affidabile, discreta ditta che le produce. Ciò mi aveva strappato un ironico sorriso. Ma adesso, mentre guardo la vetta nuda della Roccandagia e il cielo che vi scaraventa addosso un azzurro di vetro, ora mi sembra vero. Andrò avanti.
Sto cercando il marmo.
Ma ce l’ho già sotto i piedi.
I passi stanno infatti affondando in una sorta di polvere chiara, sempre più abbagliante, che scricchiola sommessamente, capisco che è marmo soltanto dopo qualche curva, quando a lato vedo sassi e ciottoli bianchi, un paesaggio lunare che evoca le profondità dell’anima.
Salgo ancora ed ecco grossi blocchi candidi. Da solo, il marmo ha formato il greto di una fiumara, con lastre venate di grigio discreto, chiare fino alla cecità. Da solo ha plasmato queste montagne che si levano fiere, candide di guglie aguzze. Marmo.
Ma qual è la sua storia?.
Forse un tempo inenarrabilmente lontano i diversi elementi interni al mantello terrestre si sono mescolati, elementi diversi di diverse temperature, hanno vorticato dando origine a rocce differenti.
E’ bello, ma non mi convince. Manca qualcosa.
Forse se avessi potuto scegliere con cognizione avrei fatto il geologo. Un’occhiata ai sassi e tutto quello che è successo nello spazio e nel tempo diventa noto. Negli occhi di un geologo prendono forma spumosi mari che non ci sono più, e gli esseri che vi abitavano, e i ghiacciai che si sono sciolti, i climi che hanno ruotato riportando i fiori e i pollini nell’aria, basta guardare una roccia e si sente la tenerezza del pianeta che rotola nell’universo. ..
-Voglio quello, diceva Michelangelo nel film. Un bel film.
Ebbe il suo blocco di marmo. Più grande della montagna. Più bello.
Davvero aveva già visto la sembianza della sua statua toccando quel pezzo, proprio quello, davvero aveva già visto ciò che gli vagava nell’anima?
Comunque lo ebbe e cavò fuori una meraviglia.
Da una grande scheggia di terra antica.
Toccare, fiutare, comunicare tramite la materia, la forza delle braccia, il lavoro della mano.
E la scena dell’artista che incontra la sua materia viene innalzata all’immortalità, con lo sfondo delle Apuane gugliose e candide. E l’egocentrismo e la vanità dello scultore e si stemperano in quel gesto eterno.
Cosa potrebbe fare invece uno scrittore? Puntare i piedi per quella penna? Ebbene, eccotela. O quel tipo di carta. Servito.
Che abissale differenza…
Gesti che diventano quasi banali, intrisi dalla quotidianità.
Continuo a salire, e ad ogni passo indago e penetro il paesaggio.
Ora sono davanti al monte squartato. Le sue viscere sono state profanate, sono diventate grossi gradini cubici, chiari. Sembrano altari di religioni praticate da popoli estinti. Di fronte c’è uno scavatore arrugginito. Tutto in lui dice che da tempo non si muove più. Una cava dismessa.
Vado avanti. Vedo altri blocchi, che diventano sempre più grandi man mano che salgo. C’è un torrentello secco, con il letto. Bianchissimo.
Salgo ancora, voglio trovare la cava nuova, quella funzionante. Proseguo come in trance, rapita da un paesaggio che mi era sconosciuto. Sento rumore di schianti, a cui seguono sordi fragori di frana. Sono le esplosioni violente per ottenere dalla montagna ciò che spontaneamente non darebbe. Occorre scavare incessantemente, ridurre le montagne a parallelepipedi tristi, perché l’uomo continua a dire: Lo voglio.
L’uomo come un tarlo, un verme, che non si arrende, che scava, scava, e fa crollare montagne, piccolo animale cui non daresti due soldi, senza forza, resistenza, uno scricciolo della natura, ma con un cervello pericoloso davvero, un errore forse, ma enormi sono i danni che questo fragile vertebrato può infliggere al pianeta, alle sue vette che hanno conosciuto il vorticare del magma.
Quando vado a salutarli, c’è sempre un silenzio che ristora. Silent, quiescunt, c’è scritto sopra il grande cancello.
Lì dentro, dove ora dormono i miei nonni, il mistero aleggia, ma si intuisce anche qualcosa che sembra pace immensa, cibo per l’anima assetata, luce di una dimensione accogliente. Anche guardando i loro occhi. Nelle foto in plexiglas. Il plexiglas attaccato al marmo.
Li guardo e parlo con loro. Continuo a farlo mentre pulisco le lapidi con un cencio, raccontando ciò che loro già sanno. Le venature grigie e nere si confondono con le tracce della polvere che l’acqua non riesce a cancellare del tutto.
Ed essi rispondono.
Non sono parole “che dici umane”, escono dalla “maglia rotta nella rete”, è una fonte di acqua chiara, chiarissima quasi folgorante.
Solo qui, solo ora, percepisco questo nesso stretto, fra il marmo e la morte, l’eternità, il mistero…
Sapevo che questo improvviso viaggio nelle Apuane sarebbe stato un itinerario nelle profondità dell’anima. Come lo è sempre stata la montagna. Ma qui c’è la luce che ti denuda senza preavviso. E cammino verso la cava nuova, sono piccola in mezzo alle esplosioni che mi rigurgitano addosso, ogni curva mi promette l’arrivo, ma ogni curva mi dice poi che è ancora lontano.
Certo non mi posso fermare ora.
Raccolgo un ciottolo bianco. Lo fotografo in contro-luce. Fotografo le mie scarpe.
All’intorno non c’è uno stelo.
Il marmo è nudo perché non vi cresce nulla.
Ma cosa cresce nell’anima?
A questa domanda ha dedicato la vita un eremita salito quassù. Era indisturbato nel suo fecondo silenzio. Ora, qui, sventrano la valle.
Giorgio Caproni non riuscì mai a dimenticare le guance di marmo della fidanzata Olga Franzoni. Gli rimasero più impresse nella morte, che quando erano vive e sensuali. Amò altre donne, ma Olga Franzoni, promessa sposa che diventò di marmo, rimase dentro di lui.
E ancora è fa i marmi di S. Reparata, grandi archi silenziosi e cimiteriali, che salta il poeta Cavalcanti, agile e sicuro, lanciando parole lapidarie ai suoi nemici, che lo scherniscono per il suo studio accanito e solitario.
-Fate pure, potete fare quello che volete, siete a casa vostra…
La vostra naturale dimora è proprio qui, in mezzo al marmo, miei cari, fra le lapidi, perché voi in realtà siete già morti, perché non avete mai né conosciuto né ricercato la profondità della vita, ma solo la sua superficialità schiamazzante…
…Sul salto di Guido Cavalcanti si ferma il mio volo, dopo l’ultimo tornante.
Davanti a me il monte non è più riconoscibile. Solo pezzi di marmo di ogni dimensione, uno su l’altro. Sembra una piramide.. Il sole del tramonto la colpisce così vivamente che gli occhi si devono proteggere. E’ altissima, fatta di blocchi, scaglie, frammenti, pulviscolo.
Più mi avvicino più le scarpe affondano nelle polvere finissima con scricchiolii secchi e asciutti.
Le mie scarpe sono bianche.
Sono arrivata nelle viscere della cava nuova, quella che osa incunearsi nella montagna fino ad estorcerle i visceri. Davanti alla piramide smagliante ciò che è rimasto della montagna sembra c’è un anfiteatro. Per giganti. Ma i giganti hanno abdicato. Insieme al sole è calato il silenzio. E le mie scarpe sono sempre più bianche.
Mi pare che non abbiano la minima intenzione di fermarsi.
E’ vero, niente è lontano. Dopo il marmo, che cosa c’è?
In realtà questo è un viaggio che non finirà mai.
