Qual è il messaggio che possiamo ricavare dalla morte di Moro a 42 anni di distanza?

ANCHE SE PUÒ SEMBRARE UN PARADOSSO: MORO FU UCCISO PERCHE’ AVEVA SCONFITTO LE B.R. PURTROPPO NON ERA RIUSCITO A FAR COMPRENDERE LA SUA IDEA DI POLITICA.

Quella triste storia ha inizio La mattina del 16 marzo, mentre alla Camera dei Deputati si apriva il dibattito per dare la fiducia al Governo, le auto che trasportavano Aldo Moro, e quella della scorta, furono intercettate e bloccate in via Mario Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse. In pochi secondi, sparando con armi automatiche, i “brigatisti” uccisero i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro (Oreste Leonardi e Domenico Ricci), i tre poliziotti che viaggiavano sull’auto di scorta (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. Era giovedì il 16 marzo 1978. Al mattino, In tre minuti circa, tra le 9.02 e le 9.05 un commando di brigatisti (forse 19) uccidono, con una precisione e una freddezza da professionisti, i cinque uomini di scorta e rapiscono Aldo Moro. I terroristi (molti con le divise dell’aeronautica militare) fanno fuoco e prelevano il Presidente della DC senza che abbia subito alcun danno fisico, prelevano dall’auto la borsa da cui Moro non si separava mai, contenente documenti e appunti per l’intervento che avrebbe fatto alla Camera per la presentazione e approvazione del governo Andreotti. Era il primo governo, voluto da Moro, appoggiato è sostenuto dal PCI, all’insegna del “Compromesso Storico”.

Cominciano così i 55 giorni più tragici della storia della Repubblica. Il corpo di Moro verrà fatto trovare martedì 9 maggio, in una auto Renault 4 rossa, in via Caetani nel centro di Roma, tra Piazza del Gesù (sedi della DC) e Via delle Botteghe Oscure (sede del PCI). Questi i fatti, fin troppo noti, di quella mattina e di quei giorni.

Ma veniamo all’uccisione di Moro e alla sconfitta delle Brigate Rosse.

Sin dai primi volantini che i brigatisti fanno recapitare alla stampa, e poi ad alcuni personaggi della politica, dichiarano che “il prigioniero” viene sottoposto “all’interrogatorio nella prigione del popolo”. I brigatisti erano convinti, o perlomeno questo pretendevano che Moro dichiarasse, che i governi del paese (che in quegli anni si succedevano e le forze politiche – in primo luogo la Democrazia Cristiana – che li sostenevano), fossero non espressione della volontà popolare, ma “…la filiale nazionale, lugubremente efficiente della più grande multinazionale del crimine che l’umanità abbia mai conosciuto … il nemico più feroce del proletariato, la congrega più bieca di ogni manovra reazionaria”. Con queste pretese, i vari gruppi terroristici, e le brigate rosse in primo luogo, pensavano di legittimare il proprio ruolo, ed essere riconosciuti come movimento politico. Fu anche questa pretesa che condizionò le scelte e le decisioni adottate nei famosi “55 giorni della storia più buia del nostro paese”. L’interrogatorio non dà alle B.R. le risposte che si aspettano. Questo è quanto emerge dai primi comunicati emessi dai brigatisti a seguito dell’interrogatorio di Moro nella “prigione del popolo”, e dai documenti (anche se in modo parziale), trovati dai carabinieri, guidati dal generale Dalla Chiesa, nel covo di via Monte Nevoso a Milano. Ma Moro, oltre che politico, è anche cristiano e cattolico, e non poteva certo avvallare una simile affermazione. La DC era un partito di governo, ma era soprattutto un partito con un’anima popolare. Va ricordato, infatti, che negli anni 70 e 80 gli italiani partecipavano in massa alle elezioni raggiungendo oltre l’80 e il 90% di partecipazione al voto. Pretendere che Moro dichiarasse che il governo (pur discutibile – a seconda delle proprie convinzioni – sul piano delle scelte), era una grande multinazionale del crimine e non l’espressione della volontà popolare, era una mistificazione che Moro non poteva né voleva dichiarare. Ecco perché “l’interrogatorio”, non dà ai brigatisti le risposte che questi si aspettavano. Questa fu la vera sconfitta e il fallimento della strategia delle Brigate Rosse. Di cui però poco si è parlato, e ancor meno si parla.

L’esito conclusivo e la sconfitta del terrorismo, non fu, quindi, dovuto (come invece se tenta di far credere) alla legge Gozzini, che prevedeva sconti di pena per i collaboratoti di giustizia, ma che proprio grazie a quella legge gli ex terroristi hanno potuto beneficiare delle riduzioni di pene in carcere.

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Ciò che invece fu sconfitto, è il concetto di Stato e tutela delle Istituzioni.

Moro viene ucciso perché metteva al centro della politica “l’uomo” prima che le istituzioni. La morte di Moro fu certamente eseguita dai colpi esplosi dai brigatisti, ma soprattutto da una visione irrazionale e illogica dell’interpretazione “del bene comune” a cui la politica deve tendere. Si è anche scritto, e letto, che Moro dalla prigione chiedeva la “trattativa” per la sua liberazione. Era una richiesta certamente legittima e sacrosanta sul piano umano. Ma le richieste del “prigioniero” Moro avevano ben altri scopi ed obiettivi. Era la diversità di concezione politica che si sforzava di trasmettere. Da una parte i valori “cristiani” (a cui la DC si richiamava), e dall’altra l’ideologia comunista (a cui tendeva il PCI). In altre parole: L’ideologia comunista metteva al centro dei suoi interessi “le istituzioni e la centralità dello Stato” all’interno del quale l’uomo si dovrebbe collocare. Mentre la concezione cristiana della politica pone al centro l’uomo (pur con tutti i suoi pregi e difetti) e i suoi bisogni e su questi “costruire” uno Stato e le sue istituzioni. Fu questo uno dei temi che Moro tendeva a sottolineare, certamente poco compresi dalla politica e dall’opinione pubblica, nei tanto concitati 55 giorni, e anche nei dibattiti negli anni successivi. Moro dalla prigione del popolo scrive ai suoi amici democristiani dicendo: “Guardate, amici democratici cristiani, guardate che state facendo vostra una idea di Stato che è l’idea comunista di Stato, non è l’idea democristiana, perché lo Stato non è un valore assoluto, è un valore subordinato anche alla vita e al benessere di una sola persona”. Non è un caso che dopo qualche anno, si assiste al totale fallimento della ideologia comunista.

Ma non va ignorato neanche la strategia politica del PCI e imposta alla DC nei 55 giorni. Il PCI non accettava la possibile ipotesi del riconoscimento politico di un movimento che si sarebbe collocato alla sua sinistra a tutela del “proletariato”. Questa strategia condizionò, e non poco, le scelte e le decisioni tese a salvare la vita dell’ostaggio Moro. Significativa, a tal proposito, l’affermazione di Cossiga, ripresa e riportata in diversi libri che parlano di quei fatti. A seguito delle prime lettere che Moro scrive dalla prigione del popolo, dove chiedeva anche la trattativa per la liberazione, Cossiga dichiarava: “Pecchioli, (componente della segreteria del PCI e “ministro ombra” n.d.r.) inviato da Berlinguer, venne da me e disse: “Dopo una lettera siffatta, sia chiaro che comunque si chiude la vicenda (uccisione o liberazione di Moro), con il prigioniero vivo o con il prigioniero morto, Moro per noi è già politicamente morto”. Non risulta infatti, che queste affermazioni siano mai state smentite nel corso di questi anni. Non solo. Come in un puzzle, anche la collocazione e il ritrovamento del cadere di Moro, tra le sedi del PCI e della DC, non può essere sottovalutato, quasi a sottolineare le responsabilità della sua morte.

Durante la prigionia Moro scrive anche lettere strazianti alla famiglia, e fino all’ultima, chiede alla moglie che tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche contro la DC e la richiesta di non portare al funerale il suo adorato nipotino Luca. Questi alcuni stralci: “… Mia dolcissima Noretta dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco siamo oramai, credo, al momento conclusivo. … Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma oramai non si può più cambiare. … Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo e incredibile comportamento. (Moro si riferisce all’atteggiamento succube del suo partito verso il PCI n.d.r.) … A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti e amici con immenso affetto ed a te e a tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. … Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta…”.

Lettera senza data e senza firma, incompleta. Forse l’ultima. Moro muore così a 61 anni.

Tra le tante lettere e scritti di Moro, piace ricordare quello che un giorno aveva detto: “Forse su questa terra non vi è il regno della compiutezza della giustizia, forse ci tocca di avere sempre fame e sete di giustizia. Questo è il nostro destino, ma è tuttavia un grande destino”. Il suo destino è stato ben più crudele. E noi resta la fame e la sete di giustizia, oltre la paura che un altro pensiero di Moro sia vero: “… Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Se guardiamo a quello che spesso abbiamo sotto gli occhi, Come dargli torto?

Il sequestro Moro è durato 55 giorni, mentre il “caso Moro” durerà per sempre”.

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Ma sarà davvero così? E il “Memoriale Moro” si conosce a sufficienza? Cosa ci ha trasmesso (e cosa ci insegna) Moro nei 55 giorni della sua prigionia? Ecco, questi sono gli interrogativi che ancora necessitano di risposte, a 42 anni di distanza. Ma che cosa è il “Memoriale Moro” cosa ha scritto Moro nei 55 giorni nella “prigione del popolo” che ancora si fa fatica a comprendere? Si sa che Moro in quei giorni scriveva tantissimo, ha scritto ai politici, ha scritto alla famiglia, ha scritto al Vaticano, ma relativamente poco si conosce di quel carteggio. Si sa dei “comunicati” che i brigatisti facevano pervenire alla stampa e ad alcune “personalità” politiche, ma poco si conosce del contenuto dei fogli travati nel covo di via Monte Nevoso dai carabinieri. Quei Documenti sono stati consegnati tutti alla magistratura, oppure fatti leggere (come alcuni fanno intravvedere) prima a persone chiamate in causa e sottratte agli inquirenti? Sono interrogativi che i vari processi svolti e le commissioni parlamentari non hanno sufficientemente chiarito. Possibile che ci possano essere ancora motivi di segretezza su tutto quanto Moro ha scritto in quei giorni?

Ecco perché appare sempre più chiaro che ad uccidere Moro non sia stata solo la determinazione di alcuni dirigenti del gruppo terroristico – visto che avevano acconsentito ad una “trattativa di scambio” e che la liberazione sarebbe potuta avvenire proprio il giorno della sua uccisione – ma è stata la avversità alla sua visione della politica. Moro era diventato scomodo, e in contrasto con il “pensiero politico dominante”. Quello che si fa fatica a comprendere: come mai ancora oggi, a tanti anni di distanza, quei valori e quei concetti espressi da Moro fanno fatica ad emergere? Su questo occorre una attenta riflessione. La triste vicenda del sequestro, l’uccisione degli uomini di scorta, la detenzione nella “prigione del popolo”, la sua uccisione, e tutta l’intera vicenda degli anni di piombo, necessitano sempre più di una analisi sia sul piano storico, per comprendere realmente come quei fatti si svolsero, sia sul piano politico, per capire e comprendere che cosa è, e cosa significa, “fare politica”.

Chi è nato dopo quegli anni sa che ci sono piazze e vie delle nostre città intitolate a Moro, forse molti sanno che è stato sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse, ma credo che molto meno si conosca del pensiero politico di Moro.

Negli anni successivi al sequestro e uccisione di Moro e agli “anni di piombo”, abbiamo assistito ad un continuo degrado della “politica” che neanche le vicende di “mani pulite” sono riuscite a cambiare. Anzi. Si è sempre di più diffusa la convinzione, certamente a torto, che la politica sia l’occasione per la conquista dei centri di potere. In questi anni, al contrario degli anni 70, la partecipazione alle elezioni è calata notevolmente, mettendo così in evidenza che gli eletti sono sempre meno rappresentativi della “volontà popolare”. Sembra che la rimozione di quei fatti stia prendendo sempre più il sopravvento, quasi ad esorcizzare un passato che certamente nessuno si augura, ma che si ha il compito di capire.

Analizzare sul piano politico, storico e culturale “gli anni di piombo” è doveroso. Non si tratta, infatti, di individuare uno o più colpevoli, a questo ci ha pensato la giustizia, ma comprendere cosa significa impegnarsi per il bene comune. IL pensiero (politico) di Moro deve dunque assumere sempre più importanza nella società, e in particolare per le nuove generazioni, per consentire uno sviluppo armonico della crescita sociale e civile delle popolazioni. La Politica è servizio. Il bene si fa servendo. Come Gesù ci ha insegnato quando lava i piedi ai suoi discepoli, cosi è chiunque accetta di “servire” il bene comune nella società civile. “Fare politica” deve tornare ad essere un obiettivo principale, nell’interesse dell’uomo come “soggetto” e non come “oggetto” sul quale si applicano le scelte. Purtroppo di questo si parla troppo poco.

Moro era un “cattolico sociale”, riteneva che lo Stato fosse una struttura giuridica al servizio della società civile e che i valori umani fondamentali fossero immensamente superiori a quelli che noi chiamiamo la dignità dello Stato. La storia (quella vera), ci sia sempre di monito nel nostro operare di cittadini per il bene comune.

Chi sono le vittime degli anni di piombo?

Moro rappresenta il culmine di una strategia di quei gruppi che pensavano, e speravano, nella sollevazione del popolo con l’uso della violenza. Ma avevano torto.

Ma chi sono le vittime del terrorismo? Sono gli italiani che hanno perso la vita, facendo il loro dovere di Magistrati, di giornalisti, di poliziotti di carabinieri, di operai, di impiegati, di dirigenti, di politici, di onesti cittadini. Ma ciò che più ferisce, nell’Italia di oggi, è la mancanza di volontà politica, e giudiziaria, per fare piena luce della storia di quegli anni del nostro paese. Il ricordo di Aldo Moro, Luigi Calabresi, Marco Biagi e di tutte le altre vittime del terrorismo richiama alla mente la triste e sciagurata stagione degli anni di piombo. Uno dei momenti più bui della storia della nostra Repubblica. Solo tra il 1969 e il 1987 sono stati registrati 14.591 atti di violenza politica, con 419 morti e 1.181 feriti. A questo computo vanno aggiunte decine di altri italiani colpiti in seguito, dal terrorismo che ha portato il numero dei morti ad oltre 500.

Francesco Mascolo

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