Appuntamento domenicale con i racconti di Marina Salucci, questa settimana ecco “Metamorfosi” un racconto breve sull’alienazione delle grandi città e il sogno della natura:
METAMORFOSI
Camminavo senza una meta, se non quella di alleviare il dolore. Il cielo era grigio e sporco, intorno a me palazzi strade tunnel sottopassi, cemento cemento cemento.
E gente che di corsa si sfiorava, non si vedeva, non mi vedeva.
Avrei voluto essere altrove, ma ero lì.
Essere lì acuiva il mio dolore: potevo andare via, ma non mi risolvevo. Intorno le forme erano spigolose, appuntite, feroci. Andavo avanti con l’insano piacere sottile di vedere nel paesaggio la mia tesi che si confermava: nulla di armonioso vi trovavo, e dunque addebitavo una copiosa parte del mio malessere a quanto mi circondava. Fossi stato in un altro posto, il discorso sarebbe cambiato.
Il giorno avanzò e il cielo si fece più scuro. Si presagiva pioggia. L’insano piacere sottile cessò, si fece disagio, poi disperazione.
Mi ritrovai a lambire giardini pubblici con alberi arsi e foglie secche, qualche mendicante, qualche ubriaco, sporcizia per terra.
Il peso sul plesso solare mi costrinse a sedermi. Chiusi gli occhi.
Nel buio del pensiero vidi scorrere gli avvenimenti indesiderati della mia vita, e lo sfondo era sempre quello, quel paesaggio. Angoli, punte, rumore, polvere.
Che cosa mai di buono e di bello avrebbe mai potuto nascere da lì?
Poi la pioggia arrivò, insieme al vento.
Rimasi seduto inerme, con gli occhi chiusi.
Scorse del tempo prima che mi risolvessi ad aprirli, ad andarmene, pronto al turbamento del paesaggio consueto.
Ma non c’era più.
Dov’ero?
S’era fatta sera, e intorno s’erano accesi delicati lampioni sferici. Mi girai. La loro luce si rifletteva, calda e dorata, in un laghetto circolare, da cui svettava una statua di donna, ninfa forse, tonda e formosa, che dal capo pesante lasciava cadere acqua, con cadenza serena. Nel punto in cui cadeva, cerchi si formavano e si allargavano, e in continuazione si disfacevano. Intorno, cespugli soffici.
Azzurro era diventato il suolo, e le luci vi battevano. Foglie multicolori l’avevano coperto, come un cielo pieno di stelle.
Ero all’inferno, e ora, pensai, ora tutto è mutato.
E poi, mentre mi alzavo e mi avviavo: “Ma dunque, era inferno davvero?”
Fotografia di Carlo Accerboni