I racconti di Marina Salucci – “La morte del sole”

Ritorna l’appuntamento con i racconti di Marina Salucci. Vi proponiamo oggi “La morte del sole”, una storia di fantascienza (e non solo) che è stata tra i vincitori del premio Racconti nella Rete:

LA MORTE DEL SOLE

di Marina Salucci

E davvero fu così. Come lo avevano predetto i mistici e gli scienziati.

Proprio così, uguale in ogni fase ai discorsi e agli articoli che da anni erano argomento di conversazione.

Uguale. Ma terribilmente diverso.

Perché potemmo constatare, quando non ci servì più a nulla, l’abissale distanza fra gli eventi e le parole che li avevano descritti. E ad un modo reagimmo alle parole. Ad un altro reagimmo alla realtà.

Quando se ne parlava sembrava così lontano ed inverosimile. Una favola di un’altra galassia.

Ognuno diceva la sua, e in quel mare di teorie, ci pareva che ciò che spiegava qualcuno fosse in contrasto con ciò che replicava qualcun altro.

Chi avrà ragione? ci si chiedeva. Beh, l’avevano tutti. Ognuno, a modo suo, aveva colto un aspetto, una porzione, un frammento di quello che si sarebbe verificato.

Ah, quanto ne parlammo, a cena con gli amici, sugli autobus attaccati agli appositi sostegni, seduti alla scrivania, alle code dei supermercati, magari per far bella figura, senz’altro per colpire qualcuno dell’altro sesso, sciorinavamo favole nuove, lontane, lontane…

Quel giorno fummo tutti colti dalla sensazione di un buio fitto e incombente.

Eppure non era sera.

E non era davvero neppure buio.

Era come se una nebbia di seta incolore si fosse infiltrata fra le cose, nei loro contorni, colmando e celando distanze, profondità, consuetudini, e facendo presagire l’oscurità. Ma non quella solita. Era qualcosa d’altro che non si sapeva cosa fosse.

Un disagio mai conosciuto ci incombeva addosso, lo ricordo come se fosse ora.

La signora Lia, dal suo terrazzo, disse: – Sta rannuvolando… L’hanno detto anche alle previsioni, alla TV. E continuò a sistemare le mollette sui panni.

Quelle sue parole ci rasserenarono. Eravamo anche noi sbucati alle nostre finestre, ai nostri poggioli, giardini, terrazzi, abbaini, e si guardava qua e là, quella diversità che non si riusciva ad acchiappare. E le parole di Lia ci parvero una ciambella in quel mare d’incertezza. Rannuvola, certo, magari un normale temporale. Ce ne aggrappammo tutti.

Sebbene nel cielo non ci fossero nuvole, ma solo indefinibili vapori, si levò un coro di: “Certo, si è fatto più nuvoloso! E’ vero! Di nuovo! Che stagione imprevedibile, non è più come una volta! Che umidità! Chissà dove si andrà a finire! Certo, di questo passo… Ah, che tempo! Non ci sono più le stagioni! Così non si può più andare avanti!”

Lia, nei suoi abitini che la fasciavano in modo delicato, guardò verso il signor Zip, il rappresentante di cerniere, sportosi dalla finestra della sua mansarda, tre palazzi più in là, tre piani più in alto.

Era l’unico ad essere rimasto zitto.

Lei lo guardava, e questo era frequente, tutti ce ne eravamo accorti. Ma non era il suo solito sguardo, furtivo e veloce. Era uno sguardo esplicito, aperto, che si sarebbe potuto dire sfrontato, se non si fosse trovato in quel viso, nei fini lineamenti di Lia.

Tutti ne fummo colpiti, forse io più di ogni altro.

Lia aveva bruciato dentro di sé quell’amore proibito, silenziosamente, ogni giorno. E altrettanto il signor Zip, mentre convinceva i titolari dei grandi empori, delle migliori sartorie, e ultimamente, poveretto, anche ipermercati e centri commerciali, a comprare le sue cerniere di prim’ordine.

Si guardavano soltanto, specialmente la sera, quando l’imbrunire velava le direzioni dei loro sguardi, lei vicino al suo canarino, lui alla sua grande e grossa moglie.

Desideri e sospiri nascevano e morivano lì, dentro di loro, nell’aria bruno-rosata.

E invece quella sera, lo sguardo di Lia era una spada.

Uscì poi con uno squillo ardente della voce, ritta, col viso alto e il profilo fiero, e tutti noi trasalimmo in quell’aria di seta incolore.

– Signor Zip, secondo lei, domani ci sarà il sole?

Tutte le nostre voci si tacquero all’istante, brusii, mormorii, bisbigli, soffocati dal peso di quella domanda, da lei a lui, e tutti rimanemmo lì, in attesa verso Zip, verso l’aria, verso le cose che sembravano disfarsi e tendere l’una all’altra, il mare al cielo, la nuvola al monte, la foglia al terreno.

Allora, mentre la nostra rigida attesa s’era fatta fredda pietra, si levarono, insieme, versi lamentosi di bestia, che al primo ascolto sembrarono informi, ma a ben sentirli si riconobbero poi bramiti, zirlii, nitriti, muggiti, latrati, e tante, tante voci delle bestie della creazione, che in quel loro chiamare la luce del sole, tendevano a diventare una sola.

Zip si guardò intorno. Era appena tornato dal suo giro e di solito andava a riposare. Ma quella sera no. I suoi occhi vagavano senza meta, le sue orecchie cercarono forse di riconoscere la strada per la quale vagavano i lamenti. Ma non era possibile. Arrivavano da tutte le parti.

Un altro coro si levò.

Chi si lamenta? Che cos’è? Che significa? Da dove vengono? Dove sono?”

Allora Zip capì … Erano dentro di noi, nessuno ne era escluso.

Ma non disse nulla.

Poi abbassò lo sguardo a Lia, la guardò, si guardarono, sui loro visi di disegnò un sorriso per noi appena percettibile, ma si capiva che comunicavano qualcosa.

Entrambi, insieme, con le stesse movenze, nello stesso medesimo istante e per la stessa durata, si voltarono lentamente là, verso il punto cardinale in cui, a quell’ora, si sarebbe dovuto trovare il sole.

Guardarono. E videro, per primi, quello che noi vedemmo poi, noi che non avevamo il loro spudorato coraggio.

Un buco, un grande grande buco di lattiginosa nebbia, simile alle nubi, sì, ma era solo un’illusione ottica, nube non era, era una voragine, un vortice, spirale infinita, vuota, vuota, profonda.

E da quella voragine che pareva caderci addosso, sentimmo arrivare un brivido freddo.

Nessuno avrebbe più osato dire che s’era rannuvolato.

Quella di Lia, altro non era stata che una beffa. Una provocazione.

Zip la guardò viso a viso, emettendo un verso sommesso d’animale.

Poi, con quanto fiato aveva in gola, lanciando fiamme dagli occhi scuri, disse:- No, Lia, domani non ci sarà il sole. Non ci sarà più.

Allora tutti ci voltammo, all’unisono, verso il punto in cui avevano guardato Lia e Zip, verso la voragine fredda, e rimanemmo lì incollati.

Qualcuno si mise a computare i punti cardinali, altri fecero riprove più complesse, ci fu chi fece segni che potevano essere di preghiera, chi iniziò a sciorinare teorie, ma tutti, tutti, immediatamente capimmo. Era là che il sole avrebbe dovuto essere. E se n’era andato. Non c’era più.

Per poco ancora riuscimmo a vedere il bagliore dello sguardo di Zip, della sua audacia, e gli occhi di tigre di Lia. Loro parevano non accorgersi che dalla voragine arrivava buio e freddo, velocemente fino a noi, alle nostre finestre.

Un evento cosmico, la mancanza agghiacciante della nostra stella, dava loro il coraggio che non avevano trovato nella quotidianità.

Qualcuno andò a prendere degli abiti caldi, altri accesero i termosifoni, e si chiusero in casa. Ma ormai quel freddo ci penetrava dentro, e non ci avrebbe abbandonato.

Ah, come amammo il sole allora, fonte della nostra vita, di tutta la vita che la sua luce faceva crescere e rizzare dalla terra verso il cielo, che strazio ricordarci le giornate di lucente limpidezza, i raggi chiari, la loro carezza, e noi che si trattava tutto come una cosa scontata…

Ricordammo con fonda tristezza quando il salmista intonava:

Nei cieli è fissata la dimora del sole.

Esce come uno sposo dalla camera nuziale,

come un campione si getta felice

nella corsa. (Salmo 19-6)

…quando Omero declamava:

Fuoco inesausto gli accese nell’elmo e nello scudo,

pari all’astro della Canicola, che sopra tutti

riluce splendidamente, quand’esce dal bagno d’Oceano, simile fuoco (gli accese)

(Dall’Iliade)

…quando Francesco cantava:

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. (Dal “Cantico delle Creature”)

Ah, come erano passati in fretta i miliardi di anni della vita concessa al nostro lume, che ci era parso potente come l’eternità.

Scrivemmo odi al sole, lo disegnammo, intonammo canti, e intanto i nostri organi diventavano freddi, come ghiaccio come specchio, il nostro sangue era diamante liquido, che andava a suo piacimento e ci portava pensieri di quarzo, tutto l’idrogeno di cui eravamo fatti si raffreddava, di pari passo con l’idrogeno del sole. Esser fatti d’elio, questo desiderammo, per disperderci allegramente nel cosmo, ed invece il carbonio ci pesava, ci impediva d’esser stella anche noi, era fardello, fardello greve.

Uscimmo tutti, di lì a poco, come se si stesse rispondendo ad un richiamo, e tutti a correre verso gli spazi aperti, prati greti, spiagge, deserti.

Lì ci ritrovammo, con l’ultima flebile luce.

Si capì che ogni creatura, animata o no, stava implodendo verso un punto, che tutto stava concentrandosi insieme, e mormorii lamenti echi accompagnavano tutti verso il luogo d’implosione.

Era un esodo ordinato, tutto incontro a tutto: il mare allungò le sue onde sulla rena, gli alberi vi si stesero, le dune si sparsero e sparirono.

Solo Lia e Zip erano ancora fermi, sui loro balconi. In silenzio, si mossero di nuovo nello stesso istante, e si trovarono sul terrazzo condominiale, quello che era sempre stato fonte di lite fra i condomini, ora pieno di pace, con Lia e Zip che erano saliti lì in alto, a vedere tutta quell’implosione, senza parole, solo mugolandosi versi dolci.

Iniziò un vorticare delle cose, una addosso all’altra ad incastro, ma con ordine, senza fretta. Era come se una calamita fortissima attirasse qualcosa verso qualcos’altro, in base a leggi nuove che noi non conoscevamo. E in quest’unione la materia si contraeva e mutava.

Vidi le rocce abbracciarsi le une alle altre e, diventate fluide, iniziare a girare, come se qualcuno le rimestasse in un pastone. Per implodere e diventare altro, la materia doveva cambiare stato.

Il cielo s’abbassava, l’atmosfera si faceva densa, le acque si contraevano.

In poco tempo tutte le cose della creazione si trovarono lì, nei punti d’implosione, faccia a faccia con se stesse, liberando tutto lo spazio che s’erano prese prima.

Ah, momento drammatico, pronosticato da millenni, che consideravamo fantascienza. Ah, la dolcezza del sole primaverile che fa rompere la scorza delle gemme, la stella che non ha eguali nel cosmo per illuminare la meravigliosa bellezza del mondo, il lume che viaggia senza sosta e crea le cose con la sua luce…

Questo pensai, poi vidi il mio vicino di casa, quello che sempre protestava per i troppi animali nel caseggiato, vorticare insieme ad una cavalla, e ciò che ne venne fuori cozzare contro un palo del telefono. La moglie del signor Zip, che neppure s’era premurata di vedere dove fosse suo marito, fece breccia in un blocco di manganese, dove già s’era conficcato un vasto assortimento di oggetti.

Su di noi pioveva il mondo, un campionario di ciò che era stato.

Era una forza primordiale quella che muoveva la materia, e mescolati nel pastone, tutti insieme a tutti, qualcosa cominciò a mutare in noi. Succedeva che ci avviavamo a non essere più noi, ma cominciavamo a essere qualcos’altro.

Lo capimmo quando le nostre nostalgie si sciolsero e il pensiero… cessò.

Intorno si era formato uno strato gassoso, provocato da quell’esagerazione di trasformazioni, e l’atmosfera gli premeva addosso, addosso, bassa, pesante, così che lo strato di gas cercava un varco per liberarsi e sgusciare.

Vidi l’amministratore schiantarsi sulla grassa signora Claudia, quella che spesso scherniva con i vicini, e diventare entrambi un finissimo diamante chiaro. E ancora l’auto lussuosa che lui lucidava e controllava ogni giorno, accartocciarsi insieme a rocce scistose.

E io andavo avanti, verso un punto, e non m’ero ancora appiccicato a nulla, così come avevo fatto durante la mia vita. Ma ormai non potevo darmene pensiero.

Invece Lia e Zip erano ancora là fermi, immobili, sul terrazzo condominiale, ora non insidiato da alcuno, e preservato da forze rotatorie.

Si erano presi per mano, un gesto semplice e tenero, ma solido e deciso. Le loro mani sembravano delicatamente appiccicate, sembravano materia nuova.

Questo, questo lì esentò dalla sfilata verso il punto, erano stati risucchiati l’uno dall’altra, come noi verso le cose, in modo così perfetto che nulla d’altro avrebbe potuto piovere su di loro o attirarli nel pastone.

Fu allora che lo strato gassoso, che aumentava smisuratamente, riuscì a perforare in un istante la troposfera, con un booatoo fortissimo, un ruuumoree primigenio, e via, via nella stratosfera, ed ancora su, su nella termosfera, il gas esplose, schizzò in alto e una luce impietosa illuminò un mondo sfatto, contratto, pieno di pezzi di cose.

Lia e Zip, mano nella mano, leggeri come uccelli, furono portati su dal potente getto gassoso, oltre il boato, oltre la luce, in giro per il grande cosmo, verso una nuova stella, dove ritrovare ciò che s’era perduto, o forse raggiungere ciò che non s’era mai avuto, o creare lo splendore di un pianeta in germoglio, solo con il volo, con il volo verso di esso.

Mi parve allora, sì, proprio allora, di sentire una nuova musica, senza gravità, canzone piuma, farfalla diafana, vagare incurante del mondo che tornava all’indistinto, alla concentrazione, al nulla, vagare insieme alla voce chiara, lieve, commossa, che cantava le parole del poeta:

E con le mani amore,

per le mani ti prenderò

e senza dire parole,

nel mio cuore ti porterò,

e non avrò paura

se non sarò bella come dici tu,

ma voleremo in cielo

in carne ed ossa,

non torneremo più…

(da “La Donna Cannone” – De Gregori)

Poi

diventai

berillio.

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