Fiorenzo Toso: “Perchè possiamo definire il Genovese una lingua e non un dialetto”

Dopo la presentazione, avvenuta sabato 6 ottobre a Villa Mina di Arenzano del primo mensile in lingua genovese “O Stafì” (a cui abbiamo dedicato un articolo), abbiamo intervistato il professor Fiorenzo Toso. Arenzanese, classe 1962, Toso è docente presso l’Università degli Studi di Sassari ed è uno dei più importanti linguisti e dialettologi italiani.

Professor Toso, cosa ne pensa dell’idea di “O Stafì”, il primo mensile pubblicato interamente in Genovese?

È una cosa a cui guardo con molto interesse, sono segnali di vitalità di questa lingua e del fatto che non la si vuole relegare a semplice folklore.

Possiamo quindi definire il genovese come una lingua e non un dialetto?

Certamente, qualcuno mi dimostri in cosa possiamo chiamarlo un dialetto. Il tentativo di definire il concetto di dialetto fatto in questi anni non funziona. Ci si è limitati agli ultimi cent’anni o poco più ma bisogna invece andare indietro nel tempo a cercare l’origine e la funzione delle parlate.

Tutte le parlate regionali italiane possono quindi definirsi lingue?

È un discorso molto complesso, bisogna vedere il rapporto che le parlate hanno con la cultura locale. Ci sono dialetti in Italia che non sono mai usciti da uno stadio esclusivamente orale e di scarso prestigio. Altre parlate, come il genovese, hanno espresso una tradizione maggiore che ci porta a discorsi di questo tipo.

Quali perciò possono definirsi lingue in Italia?

Sicuramente appunto il genovese, il napoletano, il fiorentino ed il siciliano. Altre parlate, penso ad esempio al torinese o al bolognese sono espressioni più recenti e prettamente locali.

Sul nostro territorio sembra che la parlata genovese vada via via scomparendo, parlata ormai da sempre meno persone e per lo più anziane, è così?

Purtroppo sì, questo è un dato di fatto. Le lingue sono come un “mercato economico”, una lingua la si parla quanto più è utile. Nel mondo di oggi le lingue regionali valgono pochissimo. In alcuni Paesi, penso ad esempio alla Spagna, si è fatta da anni una politica di maggiore sensibilizzazione verso le parlate locali, in altri, come la Francia, si è seguita la stessa politica italiana di penalizzare le parlate regionali e di “nazionalizzare” la lingua parlata.

Lei lavora in Sardegna, all’Università di Sassari, il fatto di svolgere la professione nel territorio che forse più di tutti in Italia porta avanti le tradizioni anche linguistiche l’ha influenzata per la ricerca sul genovese?

No, la Sardegna ha sicuramente una forte identità territoriale e linguistica. Però io mi occupo di parlata e tradizioni genovesi da oltre quarant’anni e oggi ne ho cinquantasette. All’età di quattordici anni, nell’ormai lontano 1976 mi iniziai ad appassionare e fare ricerche sul dialetto di Arenzano. Sicuramente lavorare in Sardegna ha dato diversi stimoli a questo, non dimentichiamo che è un territorio che al suo interno ha ulteriori particolarità linguistiche, come la comunità genovese di Carloforte e la comunità catalana di Alghero, nonché le fortissime similitudini tra il gallurese e la lingua corsa.

Fiorenzo Toso

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